Quando il coronavirus Sars-CoV-2 si insinua fra le mura di casa, sfruttando i figli come 'testa d'ariete', l'epilogo del focolaio di famiglia potrebbe essere diverso a seconda dell'età del 'baby-spreader'. A suggerirlo è uno studio pubblicato sulla rivista 'Jama Pediatrics'. Gli scienziati si sono chiesti: esistono differenze nelle probabilità di trasmissione domestica di Covid da parte dei bambini più piccoli rispetto ai più grandi? La risposta, che emerge da uno studio su 6.280 famiglie con casi indice pediatrici, è sì. "I bambini più piccoli possono avere un rischio maggiore di trasmettere il virus ai loro caregiver e fratelli rispetto ai ragazzi più grandi", concludono gli autori. Nel dettaglio, le probabilità aggiustate di trasmissione familiare da parte di 0-3enni erano 1,43 rispetto ai ragazzi di età compresa tra 14 e 17 anni. La ricerca si è svolta in Ontario, Canada, tra giugno e dicembre 2020. Fra le famiglie esaminate dagli autori della ricerca - esperti dell'ente Public Health Ontario, dell'università di Toronto e altre istituzioni canadesi - il 27,3% presentava una trasmissione secondaria partita potenzialmente dai casi indice pediatrici, che avevano un'età media di 10,7 anni e nel 45,6% dei casi erano femmine. I bambini di età fra 0 e 3 anni avevano le più alte probabilità di trasmettere Sars-CoV-2 ai loro contatti familiari rispetto ai minori di età compresa tra 14 e 17 anni (odds ratio 1,43). Anche i bambini di età compresa tra 4 e 8 anni e tra 9 e 13 anni avevano maggiori probabilità di trasmissione rispetto ai più grandi. Lo studio, concludono gli autori, suggerisce comunque che le probabilità più elevate di contagiare si osservavano fra i bebè, rispetto ai teenager. Le differenze possono essere spiegate da "differenze nella diffusione virale, nell'espressione dei sintomi e nei fattori comportamentali", analizzano gli studiosi, e "si sospetta che la carica virale sia un fattore importante". L'infettività differenziale dei gruppi di età pediatrica, evidenziano gli esperti, "ha implicazioni per la prevenzione delle infezioni all'interno delle famiglie, così come nelle scuole e asili, per ridurre al minimo il rischio di trasmissione secondaria". Ecco perché "sono necessari ulteriori studi" per approfondire questi aspetti.