Sono la causa del ritardo italiano sulla crescita Roma, 9 ago. (AdnKronos) - Per migliorare gli investimenti servirebbero "camiòn cchiù gruosse", diceva Massimo Troisi. Ma, se l'idea di investire (letteralmente) chi rimane senza lavoro per combattere la disoccupazione ed aiutare l'economia non è "na politica seria", la via intrapresa dagli imprenditori italiani non sembra destinata ad avere maggior successo. Pochi e male orientati gli investimenti (quelli economici), produttività del lavoro praticamente ferma: questi i motivi per cui, secondo l'Istat, dalla metà degli anni novanta l'Italia cresce a tassi ridotti rispetto agli altri paesi Ue, distanza accentuata durante la fase recessiva e in particolare nel triennio 2012-2014. Nella nota del mese di luglio sull'andamento dell'economia italiana, l'Istat rileva come, nel periodo 2009-2014, la quota degli investimenti sul Pil ha subito una contrazione di tre punti percentuali, a fronte di un incremento pari a un punto percentuale in Germania e a una diminuzione di 0,5 punti percentuali nella media dei Paesi europei. Nello stesso periodo, la produttività del lavoro è cresciuta in media solo dello 0,6% l'anno, a fronte di una diminuzione del valore aggiunto del -0,4% e di una riduzione più accentuata dell’input di lavoro del -1%. Nel 2014 inoltre, per la prima volta dal 2006, il contributo del capitale alla crescita della produttività è stato negativo (-0,5%), a causa della progressiva erosione dello stock di capitale determinata dal forte rallentamento degli investimenti a seguito della crisi finanziaria. A contribuire alla variazione positiva della produttività del lavoro hanno contribuito sia la produttività totale dei fattori (+0,4%) sia il capitale per ora lavorata (+0,1%), quest’ultimo risultato determinato interamente dal contributo del capitale materiale non-Ict. L'Istat sottolinea come sia proprio il dato della progressiva riduzione del contributo alla produttività del capitale e, in particolare, di quello materiale non Ict, a riflettere le debolezze dell'attuale modello produttivo italiano. La nostra economia è, infatti, prevalentemente ad alta intensità di capitale tangibile (macchinari e costruzioni) e, rispetto a Gran Bretagna, Francia e Germania, fa segnare il record negativo sugli investimenti immateriali ad alto valore aggiunto. Nel periodo 2010-2014, infatti, la quota media della spesa in macchinari sul totale degli investimenti è risultata pari al 33,4%, mentre quella degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale si attestava al 14%. In Francia le quote sono state rispettivamente il 22% (macchinari) e il 24% (proprietà intellettuale). In Germania, paese con una tradizione manifatturiera comparabile con l’Italia, la quota di investimenti in proprietà intellettuali è stata del 18%. Se, conclude l'Istat, per risolvere i problemi dell'economia italiana è necessaria una ripresa degli investimenti, allo stesso tempo è necessario riorientarli verso le attività ad alto valore aggiunto, sostanzialmente basate su investimenti immateriali e ad alto contenuto tecnologico come ricerca e sviluppo, software, training e capitale organizzativo. Altrimenti, tanto vale costruire camion più grossi.