Roma, 22 ott. (Adnkronos) - "Esiste ancora l’Occidente? E ha ancora senso che esista come entità geopolitica? La domanda risuona da un po’ di tempo e assume tratti sempre più ansiosi, e sempre più dubitativi, man mano che la crisi internazionale accende fuochi che né la nostra sapienza né la nostra forza sembrano più riuscire a spegnere. Siamo cresciuti con l’idea di essere il baricentro di un mondo nuovo e pacificato e ci troviamo oggi alla prese con un mondo che non accetta più l’idea che esista un baricentro, Tantomeno che siamo noi a presidiarlo. Le grandi potenze dell’est che noi occidentali pensavamo di aver domato e disarmato all’indomani della caduta del muro sono da tempo all’offensiva. I paesi emergenti del sud sfidano apertamente l’egemonia atlantica. E il medio oriente risuona di anatemi minacciosi che prendono di mira, con Israele, quel che resta del nostro modello di società. Naturalmente il concetto di 'Occidente' è ancora avvolto nella nebbia di molti equivoci. A cominciare, se vogliamo, da quello geografico. Stiamo parlando di paesi dislocati qua e là, che spaziano dall’Atlantico ai mari lontani dell’emisfero meridionale, dall’ovest europeo all’est giapponese e coreano. Insomma, un caleidoscopio di realtà e di interessi tutt’altro che uniformi e omogenei. Con un tratto comune, però. E cioè l’idea di una società fondata sulla democrazia liberale, sullo Stato di diritto, sul pluralismo, sulla tolleranza, su un sistema di garanzie. Idea imperfetta e non del tutto codificata, si dirà. Eppure tale da fornire un tratto comune nel quale si trovano a riconoscersi popoli che la storia aveva sempre diviso e qualche volta drammaticamente contrapposto. Questa nostra parte di mondo non è il regno della perfezione, come s’è detto. Ma ha dalla sua il grande merito di essere uscito con le sue forze dall’oscurità del suo stesso passato. Mentre riserviamo la nostra severità e qualche volta il nostro sdegno all’animo ferino e ai tratti illiberali di molti dei paesi e dei leader che oggi si espandono sulla scena globale non dobbiamo infatti dimenticare che molti di quei difetti che siamo pronti a criticare fino a qualche anno fa (non moltissimi) erano anche i nostri. A riprova del fatto che nessuno è perfetto, ma anche che tutti siamo largamente perfettibili. Ora il nostro ruolo si è svolto in questi anni nel nome di un primato implicito e dissimulato. Eravamo i più forti militarmente, i più avanzati tecnologicamente, i più inclusivi socialmente. Non proprio il luogo dell’idillio, tutt’altro. Ma pur sempre un faro che illuminava il percorso anche per quella parte di carovana che seguiva tenendosi più indietro. Così, a poco a poco, un passo dopo l’altro, abbiamo finito per convincerci che saremmo infine arrivati tutti (o quasi tutti) suppergiù allo stesso punto. E cioè che il nostro modello di società avrebbe permeato anche quei paesi che si erano mossi da lande ben più lontane dalle nostre. Valga per tutti il paradigma del muro di Berlino. Ora questo paradigma sembra non valere più. In parte perché il nostro primato economico, tecnologico e strategico viene apertamente sfidato. E in parte perché il nostro sistema di libertà civili, garanzie legali e pluralismi vari viene condiviso ancor meno che in passato (e non solo dai despoti). In una parola la nostra 'egemonia', se mai fosse stata tale prima, ora non si esercita più al modo di un tempo. La nostra fascinazione verso paesi e popoli che reclamano il loro protagonismo si è andata opacizzando fino a renderci invisi non appena ci troviamo a uscire dai nostri confini. Nulla di nuovo, si dirà. In fondo eravamo criticati e contestati anche prima, dalla decolonizzazione in poi. Solo che a quelle difficoltà antiche si somma oggi la percezione di uno smarrimento della nostra stessa identità. Siamo noi, proprio noi, noi più di tutti, a sentirci in colpa, e a sentirci fragili. E se la convinzione che nutriamo sulle nostri ragioni è così traballante, aspettarci che il resto del mondo riconosca il nostro primato appare piuttosto improbabile. Così finiamo per essere chiamati a percorrere un tratto di strada che separa due abissi. Uno è quello di illuderci che la nostra ragione sia ancora largamente riconosciuta. L’altro è quello di finire per convincerci invece che i nostri torti non abbiano altro rimedio che la nostra espiazione. Due abissi che ci consegnano tutti e due, per opposte ragioni, a un difficile destino e a una contraddizione stridente. Ma è proprio questa capacità di contenere contraddizioni che è infine l’essenza di quel mondo che chiamiamo Occidente". (di Marco Follini)